L'illuminismo, ovvero l'età dei lumi viene anche definita come "il secolo filosofico". Questa espressione venne coniata anzi da uno dei più grandi illuministi, il D'Alembert. Non c'è dubbio che le idee filosofiche produssero, nel corso del '700, effetti culturali e sociali rilevanti ed evidenti, percepibili da un ampio pubblico, come prima di allora non era mai accaduto. Questo particolare impulso innovatore, e talora anche rivoluzionario, della filosofia si spiega con l'influenza di vari fattori. Primariamente con la vittoria della lunga battaglia che, dal Rinascimento e per tutto il '600, la nuova filosofia e la nuova scienza avevano unitamente combattuto contro la cultura scolastica medievale. Da questa vittoria emersero quei grandi sistemi di pensiero filosofico e scientifico che con la ricchezza delle loro scoperte erano destinati a esercitare un'influenza profonda sullo sviluppo delle idee moderne.
Cartesio, Locke e Spinoza, furono in proposito emblematici. La loro eredità venne continuata da pensatori come gli inglesi George Berkeley (1685-1753) e il conte di Shaftesbury (1671-1713), o come il francese abate di Condillac (1715-1780), per non dire ovviamente di Hume e di Kant, sui quali avremo modo di ritornare tra poco. Tesi audaci e sottili come quella di Berkeley, che negava l'esistenza del mondo materiale e riduceva ogni realtà al pensiero, oppure l'analisi suggestiva delle sensazioni con la quale Condillac cercava di spiegare il processo che rende l'uomo capace di pensare e di parlare, a differenza degli altri animali, coinvolsero il pubblico e divennero oggetto di discussioni e polemiche. L'esempio di Condillac della statua di marmo cui vengono idealmente conferite, una dopo l'altra, le capacità sensitive del tatto, dell'udito, della vista ecc., sino a che, per l'influenza dei contenuti sensibili dei quali la statua verrebbe via via a disporre, la statua stessa si troverebbe in condizione di formulare pensieri e discorsi, senza bisogno di dover ipotizzare in essa la presenza di un'anima immateriale di derivazione divina, era di tale provocatoria efficacia da suscitare emozione e polemica, curiosità e scandalo. Idem dicasi del tentativo dello Shaftesbury (che influì profondamente su tutta la cultura illuministica europea) di mostrare che i valori del bene e del bello si radicano sul sentimento e sull'istinto, molto prima che su concetti o idee razionali. Ne deriva una nuova concezione del gusto estetico e soprattutto la tesi (sempre più diffusa nel '700) secondo la quale la morale non abbisogna della religione, e in particolare della religione cristiana, per fondarsi e giustificarsi: anche l'ateo può nutrire sentimenti morali non meno nobili e non meno perfetti di quelli dell'uomo religioso. Lo sviluppo che gli ideologi francesi daranno di questa tesi perverrà anzi alla conclusione estrema: l'ateo, che non si aspetta né ricompense né castighi nell'aldilà, è in grado di seguire una morale ancora più pura e indipendente di quella che ispira l'azione dell'uomo religioso. Ciò porta al riconoscimento della totale autonomia della religione morale (autonomia da ogni rivelazione e da ogni tutela delle istituzioni religiose o statali) che rivendicherà nel modo più alto e perfetto Kant. Così, la filosofia del '700, mettendo a frutto i progressi dei grandi sistemi speculativi del '600, interviene su temi e problemi che sono di interesse generale e coinvolgono la vita e le convinzioni di tutti, compresi i non filosofi ed i non dotti.
I due massimi geni della scienza e della filosofia tra '600 e '700 e che di fatto incarnarono il passaggio ideale tra questi due secoli furono Isaac Newton (1642-1727) e Gotfried Wilhelm von Leibniz (1646-1716). La scienza dell'Illuminismo fu infatti interamente newtoniana: sia perchè adottò la teoria della gravitazione universale formulata da Newton, e quindi la conseguente concezione generale dell'universo non più geocentrica, come fondamento comune di tutte le indagini scientifiche; sia perchè imitò il metodo newtoniano (impeccabilmente fondato sull'unione di matematica e di esperienza) e Io applicò a ogni campo particolare di indagine. Leibniz invece fu un genio universale, unico nella cultura europea: diede contributi determinanti a filosofia, matematica, fisica, storia; per primo intrecciò relazioni epistolari con i dotti dell'estremo Oriente, intuendo il destino universalistico della scienza e della civiltà europee; si adoperò anche al generoso tentativo di riunificazione e pacificazione di tutte le chiese cristiane ed esercitò un'intensa attività politica come consigliere del duca di Hannover (divenuto poi re d'Inghilterra), incarnando per primo quella figura di grande intellettuale come consigliere al servizio dei sovrani illuminati d'Europa e dei loro progetti di riforma politica e sociale, figura che diverrà poi tipica dell'età dei lumi e che troverà in Voltaire e in altri ulteriori realizzazioni.
Leibniz fu l'iniziatore della nuova logica "combinatoria", arte del ragionamento basata su segni algebrici e sul calcolo matematico (geniale anticipazione della logica matematica, destinata a svilupparsi nell'800 e soprattutto nel ventesimo secolo). Riconducendo il ragionamento ai segni e ai procedimenti esatti della matematica, Leibniz mirava a eliminare le infinite polemiche ideologiche che da sempre dividevano i filosofi e gli uomini in genere. Seguendo questi studi Leibniz pervenne anche alla scoperta del calcolo infinitesimale in matematica. Per vie del tutto indipendenti vi giunse anche Newton sicché tra i due grandi studiosi si accese un'aspra e spiacevole contesa circa la priorità dell'invenzione, contesa che lasciò una lunga eco tra gli esponenti delle due scuole scientifiche tedesca e inglese.
In un'Europa soggetta a rapide e talora tumultuose trasformazioni economiche, istituzionali e sociali, appena uscita dagli orrori delle guerre e delle contese religiose e ormai avviata a quella che gli storici chiamano la prima rivoluzione industriale, i valori della ragione si impongono come logica soluzione dei contrasti dettati dal pregiudizio, dal fanatismo, dalla ristrettezza delle tradizioni particolari. Accadde così che la filosofia illuministica, rovesciando un primato che un tempo era stato esercitato per un verso dalla religione e per un altro dalla poesia e più in generale dalla letteratura, dettasse di fatto i principi ideali dell'uomo moderno, principi ai quali si ispirarono i codici rinnovati delle leggi, le teorie e le istituzioni pedagogico-scolastiche, gli statuti delle accademie, delle università e degli albi professionali delle scienze, delle arti, dei mestieri. L'ideale filosofico della verità e della conoscenza razionale del mondo e dell'uomo permeò di sé i ceti superiori ed emergenti, dall'aristocrazia alla borghesia, informò i costumi della vita pratica. Un terzo motivo del primato della filosofia si collega con l'evidente e rapido incremento della ricchezza e delle tecniche produttive, associato all'ancor più rapido e stupefacente progresso delle conoscenze scientifiche in ogni campo dello scibile, con la conseguente nascita di nuove discipline (economia, chimica, biologia, archeologia, linguistica, ecc.). L'impatto di tutte queste novità sulla società del '700 travolse antiche e antichissime abitudini, valori e tradizioni consolidate, generando fatalmente gli opposti eccessi: entusiasmo sconsiderato e ostilità sorda e rancorosa contro ogni cambiamento. L'uomo del '700 sperimentò quindi per la prima volta l'effetto di spaesamento, di perdita di coordinate e di saldi riferimenti: gli uomini del '600 avevano un passato di 6000 anni (quelli stabiliti dalla Bibbia, per tutta la storia della creazione), mentre gli uomini dell'età di Kant erano consapevoli di un passato di milioni di anni. La riflessione sulla lunghezza della storia umana, sulla sterminata antichità delle nazioni si svolge in questi stessi anni e, in molti casi, appare intrecciata alle discussioni sul divenire della natura e della storia della Terra.
L'uomo si era concepito, per molti secoli, al centro di un universo limitato nello spazio e nel tempo e creato a suo beneficio. Si era costruito una storia di poche migliaia di anni che identificava l'umanità e la civiltà con le nazioni del Vicino Oriente e poi con la Grecia e con Roma. Si era pensato diverso, per essenza, dagli animali: signore del mondo esignore e padrone dei suoi pensieri. Nel nuovo secolo, il '700, si assiste alla distruzione di tutte queste certezze, con una diversa, meno narcisistica, ma certo più drammatica immagine dell'uomo. Si ha cioè lo "sradicamento" illuministico dalle certezze del passato e la sconvolgente scoperta della storia. Proiettato su una scena grandiosa quanto inattesa, l'uomo del '700 ebbe, per dir così (ma l'espressione poi è del giovane Hegel), «bisogno della filosofia»: per misurare, comprendere e familiarizzarsi con una nuova e preoccupante collocazione, cui non l'avevano preparato le concezioni religiose tradizionali e le antiche saggezze. Dal centro dell'universo in cui fino a quel momento l'uomo si era creduto, d'un tratto si scoprì solo un componente come tanti di un universo più grande in senso spaziale e temporale. La rivoluzione culturale aveva avuto inizio.
La filosofia illuministica ebbe la sua nascita in Inghilterra, ma fissò poi la sua patria d'elezione in Francia, per diffondersi di qui in tutta Europa. Ciò accadde anche per il diverso, clima politico e sociale, dato che in Inghilterra le idee illuministiche giunsero presto al potere, ispirando già con Locke e poi con David Hume (1711-1776) e con l'economista Adam Smith (1723-1790), fondatore della Scienza economica e del liberismo, principi di una moderna monarchia liberale, aperta agli ideali e ai bisogni della emergente classe borghese. In Francia invece, alla conquista delle leve economiche da parte della borghesia sin dal tempo di Luigi XIV, non aveva fatto riscontro un'analoga trasformazione politica. Il potere era rimasto al sovrano, espressione di una monarchia assoluta per diritto divino, alla corte, ai nobili, al clero. Le idee illuministiche rivestirono pertanto in Francia il carattere di una vera e propria battaglia politico-ideologica che nel fervore della lotta venne fatalmente radicalizzandosi, per passare infine dai concetti alle cose, dalle idee all'azione rivoluzionaria: nel momento in cui il potere si mostra sordo alle nuove idee, lo scontro per abbattere i redisui di un mondo visto ormai come retaggio di un passato cristallizzato e non più accettabile diventa inevitabile.
Sono i celebri philosòphes francesi a prendere coscienza del significato politico della filosofia e della cultura e a disegnare quella combattiva figura dell'intellettuale "impegnato" sul fronte dei valori e dei diritti materiali e morali di tutti gli uomini, senza differenze di razza o di ceto, che è una delle eredità più importanti del pensiero illuministico. E sono i philosòphes a inventare gli strumenti pubblici della "critica filosofica", atta a determinare, con il diffondersi della stampa, dei giornali, delle enciclopedie, la pubblica opinione: nuova ed essenziale categoria della vita e dell'azione politica, che non cesserà di accrescere la propria importanza sino ai nostri giorni.
Episodio emblematico fu la battaglia dei philosophes per la compilazione e la diffusione di una grande Enciclopedia Dizionario ragionato delle scienze, delle arti e dei mestieri. Già nel corso del '600 erano apparsi i primi dizionari enciclopedici. Di tutti il più famoso fu quello di Pierre Bayle (1647-1706), che osò criticare con argomenti storici e razionali la superstizione e il fanatismo religiosi e che ispirò largamente gli illuministi. Furono in particolare Denis Diderot (1713-1784) e Jean Le Rond D'Alembert (1717-1783) a concepire inizialmente un'opera che mettesse a disposizione del pubblico il quadro generale di tutte le conoscenze umane, criticamente esposte e razionalmente organizzate, con approccio empirico e newtoniano: impresa il cui fine evidente era l'innalzamento del livello culturale e della consapevolezza politico-sociale del pubblico dei lettori. Diderot e D'Alembert associarono all'impresa un gran numero di collaboratori, tra i quali i nomi più famosi della cultura illuministica, come Voltaire, Montesquieu, Buffon, Rousseau, Quesnay, Turgot, Forbonnais ecc. Nel 1750 Diderot pubblicò il piano dell'opera, raccogliendo un gran numero di sottoscrizioni. L'anno dopo ed il successivo apparvero i primi due volumi che suscitarono enorme curiosità e interesse, e costituirono un avvenimento culturale senza precedenti. Ma al successo clamoroso si accompagnò subito la polemica: i gesuiti scesero in campo con tutto il loro potente apparato di relazioni e di forza di pressione, e accusarono pubblicamente l'Enciclopedia di corrompere i costumi e di minare l'autorità dello Stato. Anche lo Stato era diviso: una parte della corte, come il Malesherbes e Madame de Pompadour, favoriva più o meno apertamente gli enciclopedisti, tra i quali del resto erano anche funzionari statali e membri dell'aristocrazia, che spesso firmavano le voci enciclopediche da loro scritte con pseudonimi onde evitare censure. Tra il 1753 e il '57 si arrivò al settimo volume, in mezzo a continue difficoltà: i gesuiti arrivarono ad accusare gli enciclopedisti di complotto in favore di Federico II di Prussia (si era al tempo della Guerra dei sette anni) e diffusero ovunque libelli e satire contro l'Enciclopedia. Anche il fronte degli enciclopedisti finì per dividersi: i collaboratori più moderati presero le distanze dalle tesi più radicali; Rousseau prese a sua volta le distanze dall'ideologia progressista, e via dicendo. All'inizio del 1759 il Parlamento di Parigi condannò l'opera; seguì la solenne condanna di papa Clemente XII.
D'Alembert a questo punto si arrese; non così Diderot. In maniera fortunosa quanto coraggiosa riuscì a salvare dalla confisca l'immenso materiale già accumulato e poi proseguì da solo l'impresa, sotto la continua minaccia di venire scoperto ed arrestato. Il lavoro degli ultimi dieci volumi dell'opera (che venne dopo alcuni anni liberata dall'interdetto) gravò quasi interamente sulle sue spalle. Egli ha scritto: «Abbiamo avuto come avversari la corte, i grandi del regno, i militari, i preti, la polizia, i magistrati, i letterati che non partecipavano all'impresa, il bel mondo e tutti quei cittadini che si lasciarono trascinare dalla folla». Diderot compose certamente più di mille voci; visitava le botteghe e i laboratori degli artigiani e studiava le loro macchine che poi riproduceva nel testo in splendide incisioni. È questo infatti l'apporto più originale dell'Enciclopedia: quello di presentare non soltanto il sapere astratto delle scienze tradizionali, ma anche la nuova sapienza pratica e tecnica, secondo la concezione galileiana e baconiana della scienza.
La vicenda dell'Enciclopedia è emblematica. Essa testimonia la profonda trasformazione di un sapere che assume a sua base l'ideale empiristico della conoscenza e il modello operativo delle scienze. E proprio queste ultime, infatti, presentano i progressi più importanti. Basti qui ricordare la nascita della chimica con Antoine-Laurent Lavoisier (1734-1794) e la scoperta dell'idrogeno con Henry Cavendish (1731-1810); i grandi progressi della matematica e dell'astronomia con Leonhard Euler (1707-1783) e Joseph-Louis Lagrange (1736-1813); gli studi fisici sui fenomeni elettrici di Benjamin Franklin (1706-1790), Charles-Augustin de Coulomb (1736-1806), Luigi Galvani (1737-1798) e Alessandro Volta (1745-1827). Ma il campo più ricco di scoperte fu quello della biologia: dall'introduzione di criteri di spiegazione rigorosamente meccanici in medicina con Herman Boerhave (1668-1738) alla grande classificazione botanica di Karl Linnaeus (1707-1778). Capolavoro scientifico del secolo furono i 25 volumi della Storia naturale di Louis Buffon, che applica alla natura il metodo newtoniano, formula la prima ipotesi dell'evoluzione della vita sulla Terra e dilata la cronologia dell'universo ben oltre la tradizione biblica (il che ovviamente provocò ripetuti processi e censure ecclesiastiche). Importanti infine gli studi di Lazzaro Spallanzani (1726-1799), il quale dimostra l'impossibilità della generazione spontanea della vita dalla materia. A queste scoperte va affiancata quella scoperta della storia.
Non è vero che l'Illuminismo sia un secolo antistorico: è vero invece che il '700 scoprì la storia prevalentemente sotto l'influenza della categoria del "progresso", e quindi con una tendenza a mettere i popoli e le culture in una scala ascendente, di cui l'età dei lumi e il trionfo della ragione costituivano il culmine. Ciò limitava e distorceva la comprensione delle varie epoche storiche in se stesse considerate. Essa traspare dalle opere di Charles de Sécondat, barone di Montesquieu (1689-1755). Ma nello Spirito delle leggi Montesquieu sottolinea soprattutto l'interdipendenza dei fenomeni storico-spirituali con le condizioni ambientali, fisiche, geografiche ed economiche. Inoltre Montesquieu formula quel criterio della separazione dei tre poteri dello stato (legislativo, esecutivo, giudiziario) come garanzia di libertà dei Cittadini che è tuttora valido per noi.
L'idea di progresso permea inoltre l'opera multiforme di Francois Marie e Arouet detto Voltaire (1694-1778), il più emblematico rappresentante della mentalità illuministica. Scrittore, drammaturgo, storico, polemista, filosofo, consigliere di Federico II, ripetutamente condannato da gesuiti, giansenisti e tribunali dello stato, costretto più volte a fuggire da un paese all'altro mentre i suoi scritti (che peraltro andavano a ruba) venivano pubblicamente dati alle fiamme, Voltaire mise al servizio della causa della libertà di pensiero e dell'emancipazione dei popoli il suo stile arguto e incomparabile e la lucida tenacia del suo ingegno critico. Le sue battute fulminanti facevano il giro dei salotti e delle corti d'Europa e ben si può per lui ripetere il motto: "ne uccide più l'ironia che non la spada". Il secolo di Luigi XIV e la Filosofia della storia sono i suoi scritti scientificamente più importanti. Ma il teorico più rigoroso del concetto di progresso fu Jean Caritat, marchese di Condorcet (1743-1794), che si suicidò per motivi politici nel corso della Rivoluzione francese. Nel suo Schizzo di un quadro storico dei progressi dello spirito umano egli si fa profeta di un'umanità futura che, grazie all'incremento delle conoscenze scientifiche e delle riforme politico-sociali, raggiungerà uno stato di perfetta uguaglianza materiale e morale. Scienza, ideologia del progresso, mentalità storico-rivoluzionaria sono poi alla base delle espressioni più estremistiche dell'Illuminismo, rappresentate principalmente da Claude-Adrien Hevetius (1715-1771), Julien Offray de La Mettrie (1709-1751) e Paul-Henry Dietrich D'Holbach (1723-1771).
In questi tre autori si va ben oltre la polemica arguta di Voltaire contro i preti e i pregiudizi religiosi. Helvétius nega recisamente ogni realtà soprannaturale: l'uomo non è che un animale intelligente e cioè, come dirà poi La Mettrie, una perfetta "macchina" naturale; ciò che noi chiamiamo spirito non è che l'effetto delle cause materiali interne ed esterne all'organismo. Questo materialismo radicale troverà in d'Holbach il suo completamento nell'ateismo programmatico: le religioni tutte sono un inganno di cui l'uomo deve finalmente liberarsi, se vuole diventare felice individualmente e socialmente. All'opposto di tali tesi si colloca Jean-Jacques Rousseau (1712-1778), che fu uno degli spiriti più originali e creativi dell'Illuminismo. Contro l'idea di progresso Rousseau formulò la tesi di uno stato di natura originario in cui l'uomo era buono, incorrotto e felice. A precipitarlo nella miseria, nell'abiezione e nell'infelicità è proprio quel progresso delle arti e delle conoscenze civili che tutti esaltano. E di qui che nacque l'idea infausta della proprietà privata, e poi la ricchezza, il lusso, i vizi, l'invidia, il delitto e infine le intollerabili disuguaglianze sociali che sono sotto gli occhi di tutti. Questo "mito del buon selvaggio", come allora si chiamò, fece discutere tutta l'Europa. Ma Rousseau ne trasse piuttosto ispirazione per immaginare una radicale riforma dell'educazione che assumesse la spontaneità naturale del fanciullo come guida; di fatto egli fu il creatore della pedagogia moderna. In secondo luogo, nel Contratto sociale (1762) Rousseau delineò uno stato democratico ideale che avrebbe dovuto ricondurre l'uomo sociale e storico all'eguaglianza e giustizia dello stato di natura.
Rousseau è così l'ispiratore del radicalismo democratico, che influenzò la Rivoluzione americana e molti altri movimenti politici in Russia e in Europa dall'800 ad oggi. Polemico con l'idea del progresso, Rousseau fu parimenti ostile all'Illuminismo ateo e materialista. Egli difendeva una religione del sentimento, semplice e naturale, e fu principalmente per questo motivo che egli ruppe con gli amici dell'Enciclopedia, il che fu causa di uno dei numerosi scandali che accompagnarono la sua tormentata esistenza.
In Italia e in Germania troviamo un clima ideologico più pacato e meno originale, soprattutto nel campo specifico delle idee filosofiche. Diverso era del resto il retroterra su cui si andava ad innestare la cultura illuministica stessa. Mentre infatti in Inghilterra e Francia lo stato moderno unitario era già una realtà concreta, per Italia e Germania non erano così, frammentate come erano in tanti piccoli regni e ducati di origine ancora feudale. Le conseguenze non potevano essere più drastiche.
L'Illuminismo italiano (tra i cui più illustri rappresentanti citiamo Verri, Beccaria, Genovesi ecc.) si segnalò soprattutto per gli studi economici, giuridici e storico-eruditi. In Italia infatti, il dibattito illuministico fu più limitato, e circoscritto a ben eterminate aree. I domini austriaci, soprattutto nel periodo di Maria Teresa d'Austria, e più limitatamente, con il figlio Giuseppe II, conobbero il periodo più florido di quell'impegno degli illuministi italiani in favore del progresso dello Stato. L'esempio dei fratelli Verri è il più emblematico: funzionari dell'amministrazione imperiale, essi contribuirono, anche tramite una rivista rimasta famosa, il Caffè, al dibattito delle idee che giungevano d'oltralpe, limate e adattate alla realtà della Milano asburgica, e contribuendo a fare dell'amministrazione asburgica una delle più aperte e illuminate dell'epoca. In campo giuridico si distinse Cesare Beccaria con il suo Dei Delitti e delle Pene (1764), che grande risalto ebbe anche oltralpe (fu tradotto anche da Voltaire).
Molto più limitato fu l'impatto nelle altre parti d'Italia: una discreta apertura conobbero i ducati sotto stretta influenza asburgica (Toscana, Parma, Modena), mentre la Serenissima Repubblica di Venezia, che pure fu tra le più attive nella diffusione dei libri dedicati alle idee illuministiche (grazie ad una ricca tradizione di stamperie che non ha eguali in Europa), paradossalmente assorbì solo in modo limitato le idee dell'età dei lumi, ormai avviata verso un declino in cui la classe dirigente la stava conducendo, governando con inerzia uno stato altrimenti ancora vivace nel dibattito letterario dell'epoca, grazie ad una secolare e internazionalmente rconosciuta indipendenza. Limitato per non dire assente fu invece l'impatto sullo stato sabaudo e sul Regno di Napoli, mentre apertamente ostile come detto fu lo Stato della Chiesa (che osteggiò tramite i gesuiti le idee illuministiche).
Situazione in parte più dinamica troviamo invece nel mondo tedesco, dove troviamo una frammentazione in tanti piccoli regni e ducati, solo formalmente sottoposti al Sacro Romano Impero degli Asburgo, ma che comincia a risentire di una situazione in cui l'emergente Prussia sta accrescendo la propria influenza in concorrenza proprio agli Asburgo. In questo contesto l'illuminismo tedesco si distinguesse per il confronto tra scienza, filosofia e religione, nonché per l'attenzione alle teorie estetiche (Wolff, Lessing, Baumgarten).
Ciò non toglie che proprio in questi due contesti culturali troviamo due delle più profonde menti di tutto il '700: Giambattista Vico (1668-1744) e Immanuel Kant (1724-1804). Il caso di Vico, in verità, è un. po' particolare, poiché egli si formò del tutto indipendentemente dalle tesi illuministiche, partendo dallo studio degli antichi e, tra i moderni, passando per Bacone e Cartesio. Non compreso dai contemporanei, sarà riscoperto solo dopo la sua morte, e le sue idee troveranno vasta econ in Italia e non solo. Kant si formò invece all'interno della cultura illuministica. Fu proprio lui a definire emblematicamente l'Illuminismo come l'età nella quale l'uomo usciva dallo stato di minorità e di tutela cui l'avevano costretto da millenni la religione e lo stato, per divenire finalmente adulto, cioè capace di giudicare le cose e di governarsi con la propria ragione, e deciso a ubbidire, in tema di valori morali, a un solo tribunale: quello della propria coscienza. Fu soprattutto la morale kantiana a influenzare potentemente i contemporanei.
Quella di Kant è una delle più alte filosofie dell'intera storia del pensiero occidentale. Egli cercò di risolvere il problema posto da Hume: se la conoscenza umana deve necessariamente basarsi sull'esperienza, come possiamo parlare di conoscenze universali e necessarie a proposito della natura? L'esperienza infatti ci dice solo come stanno ora le cose, ma non ci consente di affermare che esse saranno necessariamente anche in futuro come le nostre abitudini ci fanno credere. Contro questo sottile scetticismo Kant opera quella che venne chiamata "la rivoluzione copernicana nel campo della conoscenza". Se è vero che il contenuto dell'esperienza non può mai essere predetto con certezza, tuttavia la forma dell'esperienza dipende dal modo umano di conoscere, cioè dalle leggi logiche del pensiero. È su queste che di fatto si fonda la scienza nella sua ricerca di leggi generali valide universalmente. Ciò indica inoltre il compito della filosofia, che non è né una scienza degli oggetti sensibili, né di quelli soprasensibili, come pretende la metafisica tradizionale. Essa invece ha la funzione di analizzare "criticamente" i limiti conoscitivi e le capacità legittime della ragione. Questa svolta impressa da Kant all'idea stessa della filosofia diventerà il punto di riferimento obbligato per gran parte della filosofia dell'800.